Nel giorno del compleanno del Divin Codino ripropongo un articolo in cui spiego come nasce la passione per lui: dal Mondiale del ’90 in poi è stato un crescendo di emozioni. Non passa una domenica che io non riveda i gol senza tempo del Raffaello del calcio
È stato amore a prima vista quello tra me e il pallone: un rapporto viscerale, fisico, quasi ancestrale, come l’innamorata che non sa perché è mossa dal sentimento, ma sente che c’è e che crescerà all’infinito. Da piccola lo abbracciavo anche di notte con buona pace di mia madre che ogni volta lo toglieva da sotto le coperte perché era sporco. Una certezza inconsapevole maturata nel tempo, nel cortile della scuola sospesa tra un calcio e un palleggio, sotto casa al mare, sgridata dai vicini perché ero la bambina scapestrata che non rispettava “l’ora del silenzio” e che per inseguire l’amata sfera calpestava incurante giardini e sonni altrui. Indimenticabili poi i pomeriggi incollata a guardare “Holly e Benji”, divisa tra il centravanti e il portiere, a ripetere che il pallone, sì, era proprio il mio migliore amico ma anche Tom Becker non era male (e non solo come amico), a sperare di avere un giorno la metà della grinta della tigre Mark Lenders (magari con un pizzico in più di simpatia), a chiedermi se come i fratelli Derrick fosse possibile esibirsi nella catapulta infernale. Un conto sono i cartoni animati, però, un conto è il calcio vero, quello giocato.
Il primo ricordo nitido che ho risale al Mondiale del ’90, quello nostrano delle Notti Magiche inseguendo un gol, della mascotte Ciao e di una signora formazione che vantava Baresi, Bergomi, Maldini, Schillaci, Zenga, Vialli, Donadoni, Giannini ed un certo Roberto Baggio, che sarebbe diventato da lì in poi la mia passione. Ero ancora troppo piccola per sapere cos’era un Mondiale, che interessi c’erano dietro e che cosa potesse muovere il calcio, ma ne percepivo gli effetti. In primis sull’umore delle persone. Come dimenticare i giochi nel cortile e tutti i “grandi” chiusi nelle loro case in un silenzio assordante, intervallato da urla incomprensibili? Ogni tanto mi affacciavo da loro e a detta dei più portavo fortuna perché appena entravo io segnava l’Italia. Mia madre allora, dopo una quindicina di minuti di gioco della semifinale Italia-Argentina, mi vide entrare e non appena segnò Schillaci mi prese in braccio stritolandomi. Non voleva più farmi andar via e io rimasi un po’ lì… risucchiata dallo schermo e dalle sue effusioni. Resistetti poco: essere braccata seppur in un abbraccio mi andava già stretto. Non lo avessi mai fatto: nel secondo tempo Caniggia pareggiò i conti e io non rientrai più in casa. Ogni tanto ci ripenso: e se invece fossi rimasta lì… Schillaci avrebbe raddoppiato?
Se fossi tornata almeno per i supplementari Baggio invece di sfiorare il gol su punizione lo avrebbe segnato? La storia non si nutre di se, purtroppo. Di quel Mondiale mi rimane quel ricordo e un gioco strano inventato con mia cugina in onore dei due campioni Schillaci e Zenga che per me erano un po’ la riproposizione italica di Holly e Benji: ci travestivamo con tacchi ed abiti signorili “presi in prestito” a mia zia nelle mogli ricchissime dei due calciatori, andandocene in giro tra gli occhi stupiti dei nostri cugini conciate così a parlare di rigori, allenamenti e shopping. No, non ero pazza, o perlomeno non ancora.
Impazzii completamente quattro anni dopo durante Usa ’94: archiviate le elementari, ormai grande, iniziavo a pensare al calcio, agli schemi, ai contrasti tra giocatori e allenatore e ovviamente a parteggiare per Baggio, il cui fraseggio m’inebriava, e ad avversare Sacchi, di cui mi infastidiva la visione prosaica di gioco. Da quel momento in poi avrei imprecato contro qualsiasi allenatore che osava andare contro il mio idolo. Ciò che non scorderò mai sono gli orari assurdi ed io che, votata anima e corpo alla fede calcistica, non mi persi nessuna partita non solo della nostra Nazionale, ma di ogni e dico ogni squadra dai gironi eliminatori alla finale, seduta spesso sul divano accanto a mio padre. Persino lui da cui io e mio fratello abbiamo ereditato la passione calcistica (mio fratello poi ne avrebbe fatto un lavoro) ogni tanto chiudeva gli occhi dalla stanchezza, io no. E giù a tirargli le orecchie, neanche fosse il suo compleanno. Vigile e concentrata cronometravo ogni più piccola emozione dentro e fuori il campo, fino a quell’immagine stupenda dell’abbraccio tra Signori e Baggio dopo l’assist-gol che permise all’Italia, vincendo 2-1 sulla Spagna, di accedere in semifinale.
Passavo le giornate a raccogliere foto e notizie sugli Azzurri, in attesa della Finalissima contro il Brasile. Piansi a dirotto dopo il rigore sbagliato di Baggio e mi ricordo ebbi gli incubi tutta la notte, proprio io che piango raramente e ancora più raramente ho incubi. Semplicemente ora capivo che cosa era un Mondiale e immaginavo l’amarezza del Divin Codino, la grinta dimostrata nonostante il ginocchio d’Achille e poi l’errore fatale: mi doleva tanto il cuore soprattutto per lui, eroe dell’ “imponderabile” che viene, a noi comuni mortali, a “distrarci dall’orrore” del quotidiano (tanto per parafrasare una poesia di Giovanni Raboni in suo onore). Il resto è semplice storia da adulta senza troppi fronzoli: le rosicate di Francia ’98 per mano degli odiati cugini (peggiorate nell’Europeo 2000), le incazzature contro l’arbitro Moreno nel 2002, fino alla rivincita contro i Francesi nel 2006. Ci avrebbero pensato i vari Cannavaro, Pirlo, Buffon, Totti, De Rossi e Del Piero a restituirmi quella gioia, solo sfiorata ma mai provata prima fino in fondo che, grazie alla passione e al coraggio dimostrato sul campo, al sacrificio fatto prima, avevano portato ad un sicuro successo.
Cinque parole care a Roby Baggio su cui dormo ora, non sporcando più sogni e lenzuola, al posto dell’amato pallone.
Auguri artista sublime dello stop a seguire, poeta del calcio e della mia vita!
Erika Eramo