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La fortuna del Brasile è Dico che diviene Pelè, O Rey della ginga

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Il 29 giugno 1958 (ovvero 58 anni e 11 giorni fa) andava in scena una celeberrima finale, quella mondiale tra i verdeoro e gli svedesi padroni di casa, raccontata nel film uscito a maggio sull’asso brasiliano. Riuscirà questa sera il Portogallo ad agguantare il primo titolo europeo, strappandolo alla Francia già detentrice di due titoli?

“Non impuntarti, devi divertirti Dico, tutto il resto verrà da sé”. Questo è l’insegnamento di papà Dondinho, ex calciatore dalla carriera interrotta per infortunio alla gamba (vanta un solo record non superato dal figlio: in una partita fece 5 gol di testa). L’arte del pallone nasce calciando i frutti di un albero di mango vicino casa. “Non avevo il pallone e ho imparato ad allenarmi coi suoi frutti, acerbi per i palleggi e maturi per le finezze” spiegherà al suo pupillo.

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Dico era il soprannome del piccolo Edson Arantes Do Nascimento, meglio noto come Pelè, che lucidava scarpe e, scalzo, giocava tra pietre, muri e tetti delle case. Niente televisori a Bauru, solo una radiolina condivisa dall’intera comunità per ascoltare in diretta le gare del Brasile impegnato nel Mondiale di Rio. La sconfitta casalinga contro l’Uruguay fa crollare l’intero Paese nella disperazione: il calcio muore e con esso l’identità dei brasiliani. La ginga, responsabile della disfatta, verrà messa al bando. La tristezza e le lacrime sul volto dell’amato papà spingono il ragazzino a fare una promessa solenne: “Vincerò la Coppa del Mondo per il Brasile”. Così accadrà effettivamente otto anni dopo in Svezia: Pelé vincerà il Mondiale e sarà decisivo nella spedizione brasiliana in casa dei temibili svedesi.

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La storia di Pelè non rappresenta solo la nascita di un mito intramontabile capace di trasformare la povertà dei mezzi in una ricchezza sostanziale, il non avere niente nell’essere tutto, ma ci ricorda che il calcio vero, quello giocato e vissuto, non quello sbandierato e super pagato, può diventare espressione culturale di una Nazione. Non solo. Ci induce a valorizzare l’identità anche quando questa comporta una diversità di fondo, anzi fa sì che la propria tradizione che si nutre di gioco grezzo e viscerale sia il reale plusvalore. L’arma in più che è il leitmotiv di tutto il film è la ginga, passo base della capoeira, che nel calcio diventa danza acrobatica che segue la musicalità del corpo: colpo di testa, palleggio, cambio di passo, pressing e dribbling veloce, tiro spettacolare. La ginga è anche stile di gioco, modo di essere, atteggiamento di base, “toda joia” brasiliana e radice. Solo puntando quest’arma dritta al cuore dei propri compagni, solo facendogli superare quel senso d’inferiorità nato il 16 luglio 1950 (anno del Maracanazo) ma che deriva da un passato di schiavitù, solo dimostrando che giocando come sanno e non come dovrebbero fare si può agguantare la vittoria, il miracolo è possibile. In questo Pelè si distingue, iniziando a scrivere la storia gloriosa che lo porterà ad essere il Re del calcio mondiale: prende coscienza, si ferma per mettere a fuoco la situazione, pre-vede ciò che verrà, indirizza lui, a soli 17 anni, tutta la squadra verso un sogno possibile. Tutto questo, però, non può svilupparsi se di fronte non si ha un rivale degno di nota che passandoti metaforicamente la palla ti legittima e carica di responsabilità, inducendo alla riflessione.

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Senza Josè Altafini, suo alter-ego al contrario, il bianco su cui l’allenatore aveva deciso di puntare, non ci sarebbe stata la scintilla della svolta. Proprio lui, il bambino d’oro del Palmeiras che lo prendeva in giro (soprannominandolo Pelé, invece di Bilé, il portiere del Vasco de Sao Laurenço), che promuoveva un gioco europeo e si faceva chiamare Mazola (in omaggio al capitano del grande Torino Valentino Mazzola, scomparso nel ’49 a Superga), si fa male appositamente (a differenza del protagonista il cui ginocchio era veramente dolorante). “Non è la gamba, è la testa che non va” dirà a Pelè. Mai simulazione di in-fortunio fu più opportuna. Mai la parola, seguendo l’etimologia e non il significato assunto nel tempo, dice la verità: infortunarsi, ovvero cadere nella fortuna. Pelè esordirà in Nazionale il 15 giugno del 58 contro l’URSS. Altafini, durante l’intervallo della semifinale si fa nuovamente da parte per lasciare il posto a chi, incarnando lo spirito della ginga, trascinerà, con una tripletta ai danni della Francia, i suoi in finale. L’incontro con la Svezia fu altrettanto sbalorditivo e ovviamente portava ancora la firma di Pelè (doppio sigillo personale e vittoria per 5-2). Il Brasile conquista il suo primo mondiale diventando la prima nazionale ad aver vinto una World Cup fuori dal proprio continente. In quel preciso momento Dico nell’immaginario comune diviene Pelè, colui che aveva fatto tesoro di tutti i consigli del padre, uno su tutti: “Hai creduto in te, ora devi portare la tua squadra a credere in se stessa, nella ginga”. E’ per questo motivo che quel Mondiale è stato vinto da Pelè prima di tutto fuori dal campo, negli spogliatoi, nell’animo dei compagni e dell’allenatore, e solo dopo sul rettangolo di gioco.

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Non rinnegando le proprie origini, ma tirandole fuori con orgoglio, l’unico calciatore ad aver vinto tre Mondiali, ad aver realizzato una doppietta (da minorenne) in una finale, ad aver realizzato 1283 gol, ha riscattato una vita di stenti e perdite dolorose e restituito a un popolo ormai in ginocchio, la cosa più preziosa: la dignità di un calcio “sporco” nella forma ma “pulito” nella sostanza, esatto contrario di quello che muove oggi il mercato delle grandi società, degli sponsor e dei giocatori miliardari.

Foto prese da: EspressoNapoletano, Cinequanon, Cinemaeserie.altervista, Mondofox, Maidirecalcio.com

Erika Eramo

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